Il Gleevec mima una mutazione che protegge dalla malattia di Alzheimer

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 04 febbraio 2017.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La malattia di Alzheimer è la principale causa di demenza nell’anziano e costituisce ancora un frustrante ambito di impossibilità risolutiva per la terapia medica, nonostante i notevoli progressi compiuti nella conoscenza dei meccanismi eziopatogenetici. Sebbene sia stata proposta nel tempo un’estesa gamma di molecole per il trattamento della più grave delle patologie neurodegenerative del cervello, solo quattro farmaci sono stati specificamente approvati per ridurre i sintomi cognitivi, inclusa la perdita di memoria di breve termine. Questi farmaci, anche nei casi di maggiore efficacia, determinano solo modesti benefici temporanei e non sono in grado di prevenire o rallentare il peggioramento sintomatico legato all’inesorabile progressione della malattia.

Ormai da oltre vent’anni, i numerosi casi di ottimi risultati ottenuti nella sperimentazione terapeutica animale di nuovi composti sono spesso seguiti da amare delusioni nella sperimentazione clinica e dall’accantonamento del farmaco candidato per inefficacia o effetti collaterali imprevisti e potenzialmente gravi. Tale trend sfavorevole giustifica lo scetticismo della maggior parte dei neurologi nei confronti delle nuove molecole che continuano ad essere valutate e superano le fasi preliminari della ricerca farmacologica. Tuttavia, sembra che a questa regola vi possa essere un’importante eccezione. Recentemente è stata scoperta una mutazione che protegge le persone anziane dallo sviluppo della malattia di Alzheimer, ed è stato identificato il processo cellulare responsabile degli effetti protettivi della mutazione. Si è perciò ritenuto che i farmaci in grado di intervenire su questo processo o sulla sua via biochimica possano prevenire lo sviluppo della neurodegenerazione.

In uno studio condotto da William J. Netzer e colleghi e presentato da Paul Greengard è stato scoperto che il farmaco antineoplastico Gleevec ed un composto ad esso correlato mimano gli effetti della mutazione protettiva e così possono agire come modelli per lo sviluppo di farmaci efficaci per combattere la malattia di Alzheimer.

(Netzer W. J., et al. Gleevec shifts APP processing from a β-cleavage to a nonamyloidogenic cleavage. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.1620963114, 2017).

Gli autori provengono tutti dal Laboratory of Molecular and Cellular Neuroscience, The Rockefeller University, New York, NY (USA).

Si propone qui di seguito, in una sintesi estrema, un’introduzione tratta da una monografia scritta in passato per i membri della nostra società scientifica e presentata mediante vari brani nella sezione “In Corso” del sito[1].

Nel 1906 il neuropatologo tedesco Alois Alzheimer studia al microscopio preparati istologici ricavati da sezioni sottili del cervello di una sua paziente affetta da una complessa e invalidante malattia neuropsichica, caratterizzata da una grave forma di deterioramento mentale ad insorgenza precoce ed andamento rapidamente ingravescente. Descrive due tipi di lesioni che ricollegherà all’eziopatogenesi della malattia: le placche e le alterazioni neurofibrillari. La pubblicazione di questi dati, nel 1907, avvierà la ricerca su quale sia il primum movens patogenetico, le placche amiloidi o la degenerazione neurofibrillare[2].

All’originario lavoro di Alzheimer, Perusini aggiunse nel 1909 tre nuove osservazioni anatomocliniche molto dettagliate[3] e i suoi studi negli anni successivi (1910-1911) consentirono la comprensione di alcuni rilevanti aspetti clinici e patologici, così che la malattia detta in Germania “morbo di Alzheimer”, divenne nota in Italia come “morbo di Alzheimer-Perusini”. Il grande nosografista Kraepelin la ritenne una forma grave e precoce di demenza senile, secondo il concetto di senilità precoce di Fuller, anche se già nel 1910 le riconosceva autonomia nosografica costituendo la nuova categoria diagnostica della malattia di Alzheimer[4].

Anche se l’identificazione di questa nuova malattia da parte di Alois Alzheimer destò l’interesse di neurologi e ricercatori dell’epoca, per molto tempo fu vista solo come una curiosità medica perché rarissimamente diagnosticata. Per decenni, le ipotesi sulla sua eziologia e le opinioni sulle caratteristiche della patologia e della clinica hanno ispirato filoni di ricerca ed acceso dibattiti, senza però migliorare la conoscenza e la comprensione dei processi alla base di questa grave ed inesorabile perdita delle funzioni mentali e più in generale cerebrali, che termina con esito infausto.

“Si può dire che il primo reale progresso fu compiuto nel 1984, quando George G. Glenner dell’Università della California a San Diego riuscì ad isolare dal materiale amiloide delle placche un corto peptide, costituito da 40 o 42 aminoacidi, cui si diede il nome di peptide β-amiloide (Aβ).

Poco tempo dopo quattro diversi gruppi di ricerca sequenziarono il gene che codifica la proteina da cui il peptide origina. Così come erano parse sorprendenti le piccole dimensioni del peptide in grado di formare fibrille e accumuli di sostanza extracellulare, sorpresero le grandi dimensioni della proteina codificata dal gene di recente individuato. Il peptide beta-amiloide era un frammento di una macromolecola di membrana cui si diede il nome di precursore del peptide beta amiloide o beta-amyloid precursor protein o βAPP. […]

Nel 1991, studiando il DNA di una famiglia con Alzheimer ad insorgenza precoce, un gruppo della St. Mary’s Hospital Medical School di Londra localizzò il gene per la βAPP sul cromosoma 21 e dimostrò che la mutazione puntiforme si verificava proprio nel frammento di DNA codificante il polipeptide precursore. All’incirca in quello stesso periodo altri studi indicavano che in famiglie in cui ricorreva la malattia di Alzheimer il cromosoma 21 poteva essere portatore di un difetto. Questa correlazione era molto suggestiva perché da tempo era noto che i soggetti affetti da sindrome di Down o trisomia 21, quando vivono sufficientemente a lungo, invariabilmente sviluppano i sintomi di una patologia simile all’Alzheimer.

L’idea che il peptide Aβ fosse all’origine della cascata di eventi determinante la progressione della malattia era ormai opinione dominante, nota come “teoria dell’amiloide”, e i dati genetici sembravano confermarla in pieno. Ben presto si formò una vera e propria scuola di pensiero che ebbe, ed ha tuttora, in Dennis Selkoe uno dei maggiori esponenti. […]

Nel 1992 Allen Roses sfidò l’ortodossia β-amiloide: annunciò di aver identificato un gene di suscettibilità per lo sviluppo delle forme più frequenti, ad insorgenza nell’età media e avanzata. Si trattava del gene per l’allele “ε4” dell’apolipoproteina E (APOE), cioè una variante di una lipoproteina che trasporta il colesterolo. […]

La teoria dell’amiloide sembrò avere una conferma decisiva nel 1995 quando Peter H. St George Hyslop, con i suoi collaboratori, clonò due geni cui diede il nome di presenilina 1 e presenilina 2. Le alterazioni di questi geni erano state messe in relazione con una forma della malattia estremamente aggressiva e ad insorgenza molto precoce, in cui la sintomatologia talvolta esordiva già intorno ai 28 anni, divenendo presto molto grave. […]

Nel 1998 Rudolph Tanzi, genetista di Harvard, ritenne di aver identificato sul cromosoma 12, in un gene detto A2M, un altro importante fattore di suscettibilità: la sua tesi era che questo gene fosse in grado di determinare il tasso di produzione di β-amiloide da parte dei neuroni. L’ipotesi fu respinta, non solo da coloro che dubitavano del valore della ricerca sui geni di suscettibilità, ma dallo stesso Allen Roses, il quale aveva lavorato a quel locus del cromosoma 12, addirittura registrando un brevetto sull’A2M e, successivamente, si era convinto della mancanza di un legame diretto con la patologia. […]

Il precursore della proteina β-amiloide (βAPP) è sintetizzato da molte specie cellulari ed è una proteina di membrana, la cui lunghezza varia da 695 a 770 aminoacidi. Le due estremità idrofile della macromolecola sporgono l’una nel citoplasma e l’altra, la più lunga, nello spazio extracellulare. Da quest’ultima proviene il peptide beta-amiloide.

La funzione fisiologica non è nota[5] ma si sa che va incontro ad un processo di scissione enzimatica secondo due diverse modalità. […]

La prima modalità prevede una tappa catalizzata da un enzima detto α-secretasi, in grado di scindere dal precursore un peptide che sarà attaccato da un secondo enzima, la γ-secretasi, la cui azione dà origine ad un frammento fisiologico, definito p3.

Questa modalità, ossia la scissione mediante α-secretasi/γ-secretasi, dà sempre luogo ad un peptide non patogeno.

La seconda modalità differisce per l’enzima che interviene nella prima tappa, in questo caso è la β-secretasi: uno dei frammenti prodotti, costituito da 99 aminoacidi, il C99-βAPP, sottoposto all’azione della γ-secretasi dà luogo alla formazione del peptide β-amiloide[6]. La successione beta-secretasi/gamma secretasi genera per il 90% molecole di 40 aminoacidi e, per la parte rimanente, peptidi di 42 aminoacidi. Solo questa piccola frazione sembra in grado di innescare la successione di eventi che determina la formazione delle placche”[7].

Dopo questa introduzione torniamo allo studio qui recensito. William J. Netzer, con Paul Greengard e gli altri colleghi della Rockefeller University in uno studio precedente avevano dimostrato che il farmaco anticancro Gleevec abbassa i livelli di β-amiloide attraverso l’inibizione indiretta dell’attività della γ-secretasi. La nuova sperimentazione ha consentito loro di scoprire che il Gleevec ottiene questo effetto anche grazie ad un altro meccanismo cellulare. In pratica, rende l’APP meno suscettibile di proteolisi da parte di BACE, senza inibire l’attività enzimatica di BACE o l’elaborazione di altri substrati di BACE.

Questo effetto riproduce fedelmente il fenotipo di APP A673T, una mutazione di recente scoperta, che protegge i suoi portatori dallo sviluppo di malattia di Alzheimer e dal declino cognitivo legato all’età.

Inoltre, il Gleevec induce la formazione di uno specifico set di frammenti APP C-terminali osservati nelle cellule esprimenti la mutazione protettiva di APP e nelle cellule esposte a convenzionali BACE-inibitori.

Questi fenotipi legati al Gleevec richiedono un pH intracellulare acido e sono indipendenti dall’inibizione della tirosinchinasi, come dimostra il fatto che un composto correlato, mancante di attività inibitoria della tirosina chinasi, DV2-103, esercita simili effetti sul metabolismo del precursore APP. Inoltre, DV2-103 si accumula in alte concentrazioni nel cervello dei roditori, dove rapidamente abbassa i livelli di β-amiloide.

Lo studio di Netzer, Greengard e colleghi suggerisce che il trattamento di lungo termine con farmaci che indirettamente modulano l’elaborazione da parte di BACE del precursore APP, ma risparmiano altri substrati e raggiungono concentrazioni terapeutiche nel cervello, potrebbero essere efficaci nel prevenire o ritardare il sorgere della malattia di Alzheimer e potrebbero essere più scevri da rischi dei farmaci che agiscono da BACE inibitori non selettivi.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-04 febbraio 2017

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Perrella G., La Malattia di Alzheimer – un’introduzione. BM&L-Italia, Firenze 2004.

[2] Alzheimer A., Ueber eigenartige Erkrankung der Hirnrinden, Allg. Ztschr. Für Psychiat. 1907.

[3] Perusini G., Ueber klinisch und histologisch eigenartige psychische Erkrankungen des spateren Lebensalters, Hist. und Histopathol. Arb. Nissl. 3: 297, 1910.

[4] Cfr. Kraepelin E., Lehrbuch der Psychiatrie, Barth, Leipzig 1912.

[5] Numerosi studi hanno fornito nel frattempo (il testo monografico è del 2004) evidenze che indicano ruoli fisiologici della βAPP; di questi studi si trovano recensioni nelle “Note e Notizie” di questi anni.

[6] Su questa base si impiegano in terapia gli inibitori di BACE (Beta-secretase cleaving enzyme).

[7] Perrella G., op. cit.